Proprio prima di concludere l’anno, mi sono regalata la visita alla grande mostra sul Surrealismo a Palazzo Blu di Pisa, “Da Magritte a Duchamp” curata dal critico, scrittore nonché massimo conoscitore del movimento, Didier Ottinger, direttore del Centre Pompidou di Parigi, da cui provengono la maggior parte dei capolavori in esposizione. La mostra, che si concluderà il prossimo 17 febbraio, è frutto della seconda collaborazione del centro d’arte toscano con l’importante centro d’arte contemporanea internazionale francese, ricordando che la prima fu nel 2015 per Modigliani et ses amis.
Un percorso espositivo esaustivo, che si costruisce sia per capolavori che per opere meno conosciute, ma che si avvale anche di documenti storici originali a supporto di una puntuale introduzione alla conoscenza e approfondimento del movimento surrealista – contestualizzato grazie a un apparato didascalico chiaro e dettagliato nella descrizione, in successione cronologica, degli eventi storici – in alcune delle sue declinazioni geografiche più importanti, confluite poi nell’emblematica esperienza francese, grazie agli apporti dei principali teorici, come Andrè Breton e Louis Aragon, e le produzioni degli adepti creativi del movimento da Brassaï a Man Ray, da Max Ernst a Yves Tanguy, da Picabia al gruppo Le Grand Jeu, da René Magritte, Salvador Dalì e Marcel Duchamp passando per le esperienze di Picasso, Giacometti e Calder. Filo rosso su cui corre il percorso è il tratteggio del 1929, anno di piena maturazione teorica e manifestazione pratica del Surrealismo, soffermandosi su alcune peculiari produzioni dei protagonisti affiancate da quelle realizzate in anni appena precedenti o successive a questa importante data. Fotografia, collage, pittura e scultura sono tecniche indagate sia da un punto di vista estetico che concettuale, diventando mezzi con cui ci si addentra e si attraversa la materia impalpabile, latente, quanto presente e angosciante dell’inconscio, ove è racchiuso l’“Io” depravato, degenere, sensuale, perversamente vero, scalpitante e puro, altrimenti impossibile seguendo i sentieri della comprensione logica. Se abbiamo una vita pubblica e una vita privata, si dice che ne abbiamo anche una segreta, di cui conosciamo soltanto la punta, quella di un intero iceberg celato e sommerso nella parte più profonda e recondita della nostra psiche. Liberare questa parte dalle regole logiche per farla emergere è uno degli obiettivi dei surrealisti. E come fare, se non attraverso l’analisi del sogno e la sperimentazione di droghe, abbandonandosi più facilmente alle proprie paure, angosce, desideri e piaceri.
Dalle sperimentazioni fotografiche di Brassaï e Man Ray e quelle dell’autoritratto con la photomaton di Tanguy e Breton; ai collages di Ernst, Le femmes 100 tetes, il primo romanzo-collage del 1929 con 147 tavole realizzate con particolari incisioni ottocentesche; fino ai dipinti-oggetto di Juan Mirò, come la Peinture-object del 1931, a metà tra oggetto composto da diversi elementi e materiali tratti dalla vita quotidiana e dipinto, che si richiamano alla teoria dell’oggetto annunciato dall’apparizione degli “oggetti a funzionamento simbolico”.
L’humor ha giocato poi un ruolo cardine nella produzione delle avanguardie, essendo un altro elemento dello spirito umano con cui esternare in modo intelligentemente sottile gli aspetti comici della realtà. Il nonsense surrealista, di derivazione dadaista, è la chiave con cui leggere anche le sperimentazioni di gruppo col Cadavre exquis, gioco nato nel 1925 per distruggere la nozione dell’individuo-artista, contrapponendo il disegno individuale, coerente e logico, al disegno collettivo creato “alla cieca” da più mani, che fa appello all’inconscio e al mondo infantile aprendosi a tutte le invenzioni dello humor.
Non solo, l’humor è ciò che contraddistingue buona parte della produzione del grande Maestro del ready made, Marcel Duchamp. La sua dissacrante L.H.O.O.Q. del 1930 – perfino il titolo, pronunciando l’acronimo “Elle a chaud au cul”, è una presa di giro di cui lascio a voi la traduzione – si può leggere infatti come un’azione grafica infantile su un’icona dell’arte ufficiale. Trasposta su una cartolina stampata, è conosciuta ai più come la “Gioconda coi baffi” ridicolizzando la sacralità della Monna Lisa di Leonardo Da Vinci con l’applicazione, appunto, di un bel paio di baffi “artistici”.
L’inconscio, il sogno, la scrittura automatica, la psicoanalisi, la poesia, tutte tematiche care al Surrealismo, che raggiunge il proprio climax onirico ed enigmatico, delirante e ambiguo, con l’apporto creativo dei suoi due protagonisti indiscussi, il catalano Dalì e il belga Magritte. Nel 1929 a Parigi giungono alla ribalta il film Un chien andalou,
nato dalla collaborazione tra Luis Bunuel e Dalì e di cui si proietta in sala un estratto, e gli iconici dipinti del Maestro spagnolo, del quale qui vediamo per esempio “Dormeuse, cheval, lion invisibles” del 1930, che fanno capo alla teoria della “paranoia critica” e nati dall’accostamento di diverse immagini al fine di creare “associazioni e interpretazioni deliranti”. Infine, scivoliamo nel ventre di un Magritte fortemente influenzato dalle opere di De Chirico, rendendo il suo dipingere ancora più ponderato e ragionato, e dalla tecnica del collage di Ernst, acquistando consapevolezza della natura ingannevole e pellicolare dell’immagine pittorica, per donare alle sue opere quell’ambigua enigmaticità, che contraddistinguerà tutta la sua produzione, come Le double secret del 1927.
Sul finire del percorso incontriamo la sezione dedicata alla svolta erotica
del Surrealismo, avvenuta sempre nel 1029-30 con la serie fotografica di Man Ray del 1930, La prière, ispirata ai racconti e alle descrizioni delle pose erotiche del Marchese de Sade, in dialogo con la scultura di Alberto Giacometti, l’Objet desagréablé, che esprime la tensione dualista tra Eros e Thanatos di forte interesse per l’artista e la sua produzione “surrealista”. Qui incontriamo anche un altro dipinto emblematico di questo periodo, Chimère di Ernst del 1928, ispirata al mostro mitologico a cui tanto deve il Surrealismo, custodito gelosamente nello studio di Breton.
Il percorso si conclude con una dissertazione, per fotografie e documenti originali, sulla storia e i contenuti della rivista “Documents”, nata nella primavera del 1929 come spazio di protesta per i dissidenti surrealisti, diretta da Georges Bataille. La frangia dissidente surrealista non voleva assolutamente assoggettarsi al Partito Comunista francese, opponendosi al pensiero e all’approccio di Breton, con un approccio fotografico critico meno seducente e esteticamente meno curato e più ancorato al reale. Alcuni vennero espulsi dal gruppo surrealista di Breton, accostandosi perciò a Bataille, come Jacques Boiffard, che diviene collaboratore regolare della rivista e del quale è interessante vedere per esempio la serie fotografica delle Maschere, che accompagnavano l’articolo di George Limbour sulla funzione tragica e grottesca di tali manufatti, da quelle tipiche della tragedia greca a quelle anti-gas della prima guerra mondiale.
Unico neo di questo corposo percorso espositivo è purtroppo la mancanza di un apparato introduttivo nella sala dedicata alle incursioni surrealiste di Picasso e Calder, i quali in questo contesto meritano una più specifica sistemazione. In molti non sanno, per esempio, che esiste un “Picasso surrealista” – per riprendere il titolo della grande mostra svizzera del 2005 dedicata al Maestro spagnolo – e la sezione di Palazzo Blu può essere fuorviante per il fruitore medio, non esperto (non appassionato estimatore o non addetto ai lavori quindi) e inconsapevole di questa originale e personale fase del Maestro del Cubismo. Egli infatti non amava definirsi surrealista, né voleva essere accostato al movimento avendo come obbiettivo quello di rimanere alla realtà e non allontanarsi dalla verità. La volontà però di raggiungere “la somiglianza più profonda, che è più reale della realtà” lo portò di fatto al “surreale”. Una mancanza, che si sarebbe colmata con l’uso di audio-guide impostate non sulla visita per opere in mostra, come in questo caso, ma per stanze/sezioni in cui è suddivisa la mostra, introducendo il tema generale, che ispira in ognuna l’esposizione, e contestualizzandovi le diverse opere esposte, così da avere un racconto continuo, che farà emergere con chiarezza il filo conduttore tra tutte le stanze e le opere del percorso. Un problema comune a quasi tutti i musei, che sfruttano questo tipo di guide, da risolvere magari cambiandone appunto l’impostazione o incrementando le visite guidate con mediatori culturali preparati, come lo sono i ragazzi della cooperativa a cui è già affidato questo tipo di servizio, soprattutto quando si ha a che fare con una mostra antologica di questo genere.
Ringrazio La Kinzica per la disponibilità e l’accoglienza, come sempre il personale della cooperativa si è dimostrato professionale, discreto e presente.
Photo credits Alessandra Ioalé