Ho avuto il piacere di esperire per la prima volta il lavoro di Binta Diaw, artista italo-senegalese classe ’95, in occasione della Biennale di Berlino del 2022 e oggi posso rivederlo in mostra con maggiore respiro in Del Cosmo e della Terra a cura di Ilaria Mariotti fino al 3 marzo al Centro Espositivo Villa Pacchiani.
Attraverso una serie di opere significative tra installazioni dal forte carattere evocativo e coinvolgente, fotografie e video, che affrontano il tema del corpo come paesaggio su cui si stagliano le difficili diatribe politiche e sociali, fino ad arrivare all’opera frutto del processo partecipativo che è stato al centro del progetto espositivo, possiamo ammirare una delle voci più potenti tra le giovani generazioni di artisti afrodiscendenti. Del Cosmo e della Terra nasce, infatti, con l’obiettivo di realizzare processi di dialogo e convivenza tra culture diverse coinvolgendo, la numerosa ed estremamente variegata e articolata comunità senegalese che risiede nel comune toscano. Una nuova versione di Black Powerless è l’opera che Binta Diaw realizza con i ragazzi e le ragazze di origine senegalese, destinata alle nuove generazioni nate in Italia ed è un lavoro legato alla questione dello Ius soli.
L’attesa del compimento del diciottesimo anno per ottenere la cittadinanza italiana rende invisibili gli afrodiscendenti, e più in generale, tutte le seconde generazioni di stranieri nate e cresciute in Italia. L’installazione, costituita da calchi di pugni appesi verso il basso, trae ispirazione dal pugno alzato simbolo del movimento Black Power, con la dolorosa presa d’atto della mancanza di diritti. La colorazione dei calchi è data dal tannino che fa parte di alcuni processi di lavorazione delle pelli e che rimanda direttamente al contesto santacrocese. L’esperienza è nata dalla necessità di sollecitare una riflessione condivisa con le giovani e i giovani della comunità portando alla luce e alla loro attenzione possibili modelli di futuro, riflessioni in corso, scambi di idee, pratiche di dialogo.
Le opere dell’artista si focalizzano tutte sull’indagine filosofica dei fenomeni sociali che caratterizzano la nostra contemporaneità e nello specifico la migrazione, su questioni legate all’identità, all’appartenenza, al genere utilizzando il corpo e lo spazio. L’artista sollecita costantemente una riflessione a partire dal fatto di essere una donna nera in un mondo europeizzato, attraversato da molteplici storie e caratterizzato da geografie che possono essere costantemente revisionate e reinterpretate in un’ottica consapevolmente critica.
Incontriamo le due magnifiche e potenti opere ambientali Reeni Yakar e 1.12.44, che utilizzano la terra, rievocano miti e ricostruiscono avvenimenti storici drammatici per il popolo senegalese, invitano il visitatore a percorrere la mostra inoltrandosi in una sorta di paesaggio fisico ed evocato, sollecitato da stimoli visivi, olfattivi e sonori insieme: tutte suggestioni, queste, che costruiscono l’immaginario dell’artista.
La prima è una monumentale scultura fatta di trecce di capelli sintetici che da soffitto si allunga sul terreno facendo emergere potente l’immagine delle radici ed evocando significati stratificati. I capelli femminili sono infatti un’estensione del corpo che le donne dei secoli passati, ridotte in schiavitù, hanno usato, acconciati con elaborati disegni, come segnali di comunicazione, mappe di resistenza e di ribellione. Nelle acconciature elaborate potevano nascondere oggetti, intrecciarne di piccoli che fungevano da segnali: un codice condiviso solo da particolari gruppi di persone. Ma le grandi trecce alludono anche alle radici delle mangrovie, rifugio di uomini e donne braccati dai cacciatori di schiavi.
La seconda, invece, è dedicata a un episodio della storia del Novecento del Senegal. Il titolo fa riferimento alla data in cui l’esercito francese perpetrò il massacro dei Tirailleurs Sénégalais, che combatteva a fianco dell’esercito francese, come dura risposta alle rivendicazioni dei soldati smobilitati in transito nel campo di Thiaroye. L’installazione è fatta di terra, semi di miglio e mais e dei tipici berretti rossi (chéchia) indossati dai Tirailleurs. Ancora una volta la terra, percorsa da solchi dell’aratro, è il luogo dell’origine e allude alla vita dei soldati prima della guerra, nella maggior parte dei casi contadini, ma anche alle trincee sui campi di battaglia. Alcuni dei cappelli sono forati e nel tempo lasceranno spuntare una piantina di miglio o mais, alimento base delle truppe coloniali. Una voce narrante riporta frammenti di documenti e una lista di nomi.
Passando poi per le fotografie della serie Paysage corporel (un progetto iniziato nel 2019 e ancora in corso), incentrate sul tema del corpo come luogo di generazione, come terreno di resistenza, di potere e di atto. Il rapporto ancestrale tra i corpi femminili e la Natura, ritorna in questi lavori in cui vengono fotografate diverse parti del corpo. Le foto sono state rielaborate con l’utilizzo del gessetto, ricalcando sulla superficie fotografica tracce di colori che trasformano le linee e le forme del corpo in viaggi, sentieri e paesaggi armoniosi e idealmente infiniti. Queste tracce sono il risultato di un processo di interrogazione, di continua ricerca interiore legata al movimento ciclico delle donne, della natura e dell’arte.
Arrivando all’ultima parte dell’esposizione, che si conclude con il video Essere Corpo (2019), che esprime, attraverso l’azione performativa, il ritorno del corpo alla terra e alla natura. Una danza liberatoria in cui la natura è vista come un bene comune con radici antichissime. Una riflessione, che nasce dalla condizione di donna nera, su come la società occidentale, patriarcale e capitalista abbia sempre razzializzato le donne e la natura allo stesso livello.