Il primo alito perturbante che ci arriva dalla mostra di Teresa Margolles, “Sobre la sangre“, è quello che a prima vista sembra un ombrellone sotto cui ripararci, dalla pioggia come dal sole. Ad accoglierci all’esterno infatti è l’installazione itinerante “Frezada”, sotto la quale ci poniamo e veniamo colti da un forte odore di sangue che da essa si sprigiona. Il primo cortocircuito. In realtà quell’ombrello è composto da una coperta recuperata dall’obitorio di La Paz impregnata del sangue di una donna vittima di femminicidio, montata poi su una struttura metallica. Come ci sentiamo quando diventiamo consapevoli di stare all’ombra della violenza di genere?
All’interno, lo spazio espositivo dello Scompiglio è irriconoscibile, completamente modificato ad hoc per quella che sarà un’esperienza conoscitiva davvero suggestiva e comprensiva dell’opera e del messaggio, dell’esperienza dell’artista. Un’artista che “esamina le cause e le conseguenze sociali della morte, della distruzione e della guerra civile.” Affrontando temi come la violenza, il genere, la povertà e l’alienazione con cui “critica l’ordine sociale ed economico che rende normali certe morti violente, […] sottolineando la complicità del governo nel produrre violenza e nel generare povertà.”
Introdotti in quello che è il percorso espositivo, concepito quasi come un tunnel/labirinto buio, rimaniamo senza fiato appena girato l’angolo. Abbagliante, nell’oscurità della sala, ci appare stesa una lunga tela, a prima vista una suppellettile cerimoniale dai ricchi ricami.
Teresa Margolles “Wila Patjharu / Sobre la Sangre, 2017”
Ci avviciniamo lentamente, come a qualcosa di sacro, e osserviamo in silenzio. Siamo ancora ignari di ciò che abbiamo davanti i nostri occhi. Costeggiamo adagio il lungo piano che la sostiene. Ci sveleranno poi i curatori la realtà di ciò che stiamo vedendo, guardando, osservando attentamente, attratti esteticamente da ciò che sembra ma non è.
Una sindone di 25 metri che ha avvolto non uno ma dieci corpi di vittime di femminicidio a La Paz. Corpi di donne, straziati, privati dell’anima e consacrati al martirio di una società irresponsabile, violenta e ingorda di ignoranza. Una società machista. Ricamata successivamente “da sette artigiane dell’etnia Aymara attraverso le tecniche tradizionali decorative degli abiti di danza popolare boliviana.” In poco tempo è come essere commensali attorno a un tavolo da autopsia, progettato per sostenere il suo straziante valore. Mi sento in colpa per aver contemplato ed essere stata rapita dalla bellezza dei preziosi ricami. Mi sento ingannata dallo splendore apparente che nasconde qualcosa di orribile, drammatico.
Ed ecco che ho pensato alla bellezza, al trucco, come a strumenti per il nascondimento dell’atroce.
Un’opera davvero sorprendente, che ha diverse chiavi di lettura. E’ sorprendente l’enorme bellezza estetica che nasconde, uguale e contrario, l’enorme orrore umano, producendo un equilibrio tra il concetto/messaggio espresso e la sua restituzione concreta difficilmente realizzabile nello spazio fisico. Tanto magnificente appare, tanto è orribile il segreto che nasconde. E non è forse ciò che accade da sempre anche nella nostra società? E ancora una domanda. Cosa dobbiamo ritenere “sacro”, oggi, ed elevarlo a “oggetto di venerazione”? Non esiste un solo corpo sacro, non esiste una sola persona da venerare. Ogni corpo è sacro e venerabile. Chi toglie impropriamente la vita commette un sacrilegio. Vorrei elevare a sacra questa sindone, che porta le traccie del sangue di donne a noi sconosciute, ma non per questi motivi meno sacre. Qui sono stati avvolti, hanno giaciuto i loro corpi. Corpi di persone, di vittime innocenti. Al di là della differenza di genere.
L’artista pone il pubblico nella condizione di provare quel disagio che ogni donna prova in una società che non le accetta, le nasconde. Nasconde la brutalità di ciò che ogni giorno sono costrette a subire, ritenute oggetti di e per il desiderio altrui, di e per il piacere altrui. L’opera di Margolles ci mette davanti al senso di colpa che si produce quando si fa avanti la consapevolezza di poter far parte di un meccanismo che vuole insabbiare, nascondere, cancellare il femminicidio sistematico ed “accettato” culturalmente. Perché è un meccanismo culturale, la cui tradizione popolare riesce “a trasformare in ornamento una tragica realtà quotidiana.”
Il labirintico percorso si conclude poi con due fotografie e due tracce audio associate, attraverso le quali Margollers racconta le vicende drammatiche di due prostitute transessuali, vittime dell’odio di genere la cui morte, come quella di tante altre persone nella loro situazione, non conta, passa inosservata.
Uno splendido progetto espositivo, intenso e indimenticabile, curato da Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia, visitabile fino al 16 settembre presso la Tenuta dello Scompiglio a Vorno di Lucca.
Tutte le foto sono Courtesy dell’artista e realizzate da Rafael Burillo